Locazioni non registrate: la Cassazione chiarisce i limiti della “riconduzione a congruità”

La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sul delicato tema dei contratti di locazione ad uso abitativo non registrati. Con l’ordinanza n. 15891 del 13 giugno 2025, la Terza Sezione civile ha stabilito i criteri applicabili ai contratti stipulati in forma scritta ma mai registrati, risolvendo una questione rimasta controversa dopo la riforma introdotta dalla Legge di Stabilità 2016.

Il caso esaminato

Il procedimento riguardava un contratto di locazione abitativa a canone libero, stipulato per iscritto prima del 1° gennaio 2016 ma mai registrato. Il locatario aveva chiesto al giudice la rideterminazione del canone sulla base degli accordi territoriali, invocando il meccanismo della cosiddetta “riconduzione a congruità”. Le corti di merito avevano però respinto la domanda, ritenendo nullo il contratto per mancata registrazione e negando così il diritto al rimborso dei canoni versati.

La questione giuridica

Al centro del giudizio vi era il dubbio se la disciplina introdotta dalla Legge di Stabilità 2016, che consente al giudice di rideterminare il canone dei contratti non registrati secondo i parametri fissati localmente, potesse applicarsi anche a contratti firmati prima del 1° gennaio 2016 ma rimasti privi di registrazione a quella data.

La decisione della Cassazione

La Suprema Corte ha chiarito che i contratti scritti e non simulati, seppur non registrati e stipulati prima del 2016, non sono nulli. Tuttavia, la possibilità di chiedere la rideterminazione del canone è ammessa solo a partire dal 1° gennaio 2016, ovvero dalla data di entrata in vigore della modifica normativa.

In particolare, il giudice – si legge nell’ordinanza – potrà intervenire sul canone fissato in questi contratti esclusivamente entro i limiti stabiliti dagli accordi territoriali tra le associazioni di categoria, sia per i contratti a canone libero che per quelli a canone concordato.

Le conseguenze pratiche

Questo chiarimento della Cassazione offre un punto di riferimento importante per locatori e conduttori coinvolti in contenziosi su contratti non registrati. Resta esclusa la nullità del contratto in sé, purché scritto e non simulato, ma la possibilità di adeguare il canone ai parametri di mercato previsti dagli accordi locali sorge solo dal 2016, senza effetti retroattivi.


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Prelazione agraria, quando l’errore costa caro: il contratto può essere nullo

Il diritto di prelazione agraria — nato per favorire lo sviluppo della proprietà coltivatrice e garantire continuità all’impresa agricola familiare — è regolato da una normativa rigorosa, che impone il rispetto di precisi requisiti soggettivi e oggettivi. E se questi requisiti mancano, le conseguenze possono essere pesanti: la compravendita del terreno può infatti essere dichiarata nulla, con gravi ricadute economiche e giuridiche per tutte le parti coinvolte.

A ribadirlo è stata di recente la Corte di Cassazione, che nella sentenza n. 28413 dell’11 ottobre 2023 ha confermato come il mancato rispetto dei presupposti previsti dalla legge per l’esercizio della prelazione comporti la nullità del contratto ai sensi dell’articolo 1418 e 1421 del codice civile. In particolare, chiunque vi abbia interesse — come un promissario acquirente estromesso — può agire per far valere tale nullità.

Le regole della prelazione agraria

La disciplina vigente stabilisce che, in caso di vendita di un terreno agricolo, il diritto di prelazione spetti in via prioritaria all’affittuario coltivatore diretto che lo conduce. Se il fondo è libero da affittuari, la prelazione spetta ai coltivatori diretti proprietari di terreni confinanti.

Ma non basta possedere un terreno o coltivarlo occasionalmente: la legge impone che il coltivatore diretto, per esercitare il diritto, debba coltivare il fondo abitualmente da almeno due anni, disporre di una forza lavoro adeguata e non aver venduto altri fondi rustici nel biennio precedente.

Le conseguenze della violazione

Se chi esercita la prelazione non possiede questi requisiti, il contratto di compravendita stipulato successivamente è nullo. In questi casi, chi è stato estromesso dalla trattativa — ad esempio un soggetto che aveva sottoscritto un preliminare subordinato al mancato esercizio della prelazione — può agire giudizialmente.

Le strade percorribili sono due:

  • far dichiarare la nullità della compravendita stipulata con il prelazionante illegittimo;

  • ottenere l’esecuzione forzata del preliminare originario, chiedendo al venditore il trasferimento del fondo, poiché il contratto nullo non ha mai prodotto effetti validi.

Norme di ordine pubblico e tutela collettiva

La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che le disposizioni sulla prelazione agraria sono norme di ordine pubblico, essendo finalizzate alla tutela della collettività e al perseguimento di obiettivi di politica agraria ed economica. La loro violazione determina quindi una nullità insanabile, rilevabile anche d’ufficio dal giudice.

Attenzione anche alle irregolarità formali

Non solo la mancanza dei requisiti, ma anche eventuali irregolarità procedurali — come l’omesso versamento del prezzo nel termine previsto o l’esercizio della prelazione da parte di un soggetto che non è realmente proprietario di un terreno confinante — possono comportare la nullità della vendita.

Diversa la posizione del prelazionario pretermesso

Importante infine distinguere il caso del soggetto che avrebbe dovuto essere preferito nella vendita e che invece è stato escluso. In questa situazione, il titolare della prelazione agraria non può invocare la nullità della compravendita, ma dovrà esercitare il diritto di riscatto agrario, chiedendo di subentrare al terzo acquirente alle medesime condizioni.


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Animali come esseri senzienti: svolta storica nella tutela penale con la Legge Brambilla

Una riforma attesa da anni e ora finalmente realtà: con l’approvazione definitiva del disegno di legge n. 1308, il Senato della Repubblica ha sancito un cambio di paradigma nella tutela giuridica degli animali. La Legge Brambilla, dal nome della promotrice Michela Vittoria Brambilla, riconosce per la prima volta in modo esplicito gli animali come esseri senzienti, titolari di una tutela autonoma e non più subordinata al “sentimento umano” nei loro confronti.

Si tratta di un passo storico per l’Italia, che aggiorna il proprio impianto normativo a una sensibilità etica e giuridica ormai diffusa in Europa e recepita da tempo dalla giurisprudenza.

Dal sentimento umano ai diritti degli animali

La filosofia della nuova legge, come sottolineato in aula dal relatore senatore Manfredi Potenti, segna la transizione da una tutela indiretta — legata alla lesione del sentimento umano — a una tutela diretta degli animali come soggetti di diritto. Un principio già affermato da recenti pronunce di merito e di legittimità, ora definitivamente recepito nel Codice penale.

Sanzioni più severe e nuove fattispecie di reato

Il cuore della riforma sta nell’inasprimento delle pene per i reati già previsti dal Codice penale e nell’introduzione di nuove figure di illecito. Tra le principali modifiche:

  • Uccisione di animali (Art. 544-bis): reclusione da sei mesi a tre anni e multa fino a 30.000 euro, che sale a quattro anni di carcere e 60.000 euro di multa in caso di sevizie o sofferenze prolungate.

  • Maltrattamento di animali (Art. 544-ter): pena della reclusione da sei mesi a due anni e multa, ora obbligatoriamente cumulativa.

  • Combattimenti tra animali (Art. 544-quinquies): innalzata la pena da due a quattro anni, con multa da 50.000 a 160.000 euro.

Si aggiungono nuove fattispecie come l’allevamento e l’addestramento per combattimenti e le scommesse sui combattimenti.

Aggravanti e strumenti procedurali innovativi

La legge introduce inoltre nuove aggravanti, tra cui la commissione dei reati alla presenza di minori, nei confronti di più animali o la diffusione via internet di immagini di maltrattamenti.

Sul piano procedurale, il nuovo articolo 260-bis c.p.p. disciplina il sequestro, la confisca e l’affidamento degli animali, mentre un’ulteriore novità è rappresentata dal divieto di abbattimento o alienazione degli animali coinvolti in procedimenti penali.

Più tutele anche per gli animali d’affezione

Particolare attenzione è dedicata agli animali da compagnia: divieto di detenzione a catena, pene più severe per il traffico illecito e il divieto commerciale di pellicce e pelli di gatto.

Infine, l’abbandono di animali (art. 727 c.p.) vede innalzata la sanzione minima da 1.000 a 5.000 euro.

Una riforma attesa, ma non senza criticità applicative

La legge rappresenta un rafforzamento dell’effetto deterrente e un adeguamento ai principi già affermati dalla Cassazione. Restano però delle sfide: dalla gestione degli animali confiscati, al coordinamento tra forze di polizia, fino alla formazione degli operatori giudiziari e amministrativi.


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Contributo unificato, nessun obbligo per l’avvocato di anticiparlo al cliente

Nessun obbligo, neppure sul piano deontologico, per l’avvocato di anticipare il Contributo Unificato al cliente. È quanto ha precisato il Consiglio Nazionale Forense con la sentenza n. 410 del 6 novembre 2024 (pres. f.f. Corona, rel. Cassi), intervenendo su una questione che spesso genera dubbi tra i professionisti forensi.

Secondo il CNF, all’avvocato è sufficiente fornire al cliente un’adeguata informativa circa le conseguenze della mancata contribuzione. Non costituisce quindi illecito disciplinare l’iscrizione a ruolo di una o più cause in assenza del versamento del contributo unificato all’Erario, poiché nessuna norma impone al legale l’obbligo di anticipare di tasca propria tali somme. Nemmeno l’art. 13, comma 10 della legge professionale forense (L. 247/2012) prevede un dovere in tal senso, attribuendo invece al difensore solo il diritto al rimborso delle spese vive eventualmente anticipate.

Diverso, invece, il caso in cui, per il mancato pagamento del contributo unificato da parte del cliente, l’avvocato ometta di promuovere una causa o di procedere all’iscrizione a ruolo. In tale ipotesi, chiarisce il Consiglio, si configurerebbe una responsabilità disciplinare per violazione della funzione sociale dell’avvocatura, oltre che degli obblighi derivanti dal mandato professionale, come previsto dal Codice Deontologico Forense e dalle norme del Codice Civile.


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Arbitrato sul lavoro, no all’appello: solo la Cassazione può sindacare il lodo

Nuovo importante intervento della Corte di Cassazione sul tema degli arbitrati irrituali in materia di lavoro. Con la sentenza n. 12278/2025, la Suprema Corte ha stabilito che un lodo arbitrale irrituale, previsto dall’articolo 6 dello Statuto dei lavoratori, non è impugnabile con l’appello ordinario, ma esclusivamente mediante ricorso in Cassazione, ai sensi dell’articolo 412-quater del Codice di procedura civile.

La vicenda trae origine da un licenziamento per giustificato motivo soggettivo avvenuto nel giugno 2020. Il lavoratore, opponendosi al provvedimento, aveva attivato la procedura arbitrale prevista dallo Statuto, ottenendo nel marzo 2021 un lodo che convertiva il licenziamento in una sanzione conservativa, pari a quattro ore di retribuzione.

Il datore di lavoro, tuttavia, non aveva dato esecuzione al lodo e il dipendente si era rivolto al Tribunale, che aveva confermato la validità della decisione arbitrale, respingendo la richiesta di annullamento avanzata dall’azienda. Quest’ultima aveva allora proposto appello, accolto dalla Corte territoriale, che aveva ritenuto inapplicabile la procedura arbitrale ai licenziamenti disciplinari.

La Cassazione ha ribaltato questo orientamento, richiamando anche precedenti delle Sezioni Unite (25253/2009). Secondo i giudici di legittimità, il lodo previsto dallo Statuto ha natura irrituale e la sua efficacia vincolante discende dalla volontà delle parti. Pertanto, le eventuali impugnazioni sono ammesse unicamente in Cassazione e non con ricorso ordinario in appello. Di conseguenza, la sentenza di secondo grado è stata dichiarata inesistente per incompetenza per grado.

La Suprema Corte ha altresì escluso la possibilità di applicare il meccanismo della translatio iudicii, sottolineando come l’incompetenza per grado non consenta di salvare il procedimento impugnatorio. Inoltre, poiché il Tribunale aveva già confermato la validità del lodo, e tale decisione non era stata impugnata nei modi corretti, essa è divenuta definitiva, producendo un giudicato esterno che vincola i giudici successivi, indipendentemente dalle posizioni delle parti in giudizio.


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Odio digitale, come la legge cerca di fermare l’hate speech sui social

Negli ultimi anni, il discorso d’odio — hate speech — si è affermato come un problema di rilevanza giuridica, sociale e culturale di portata crescente in tutta Europa. Il passaggio del confronto politico e sociale alle piattaforme digitali ha creato un ambiente comunicativo nuovo e complesso, dove le regole tradizionali appaiono spesso inadeguate a regolamentare la diffusione di messaggi carichi di odio.

Il quadro normativo in Italia

L’Italia ha sviluppato un corpus giurisprudenziale severo, soprattutto quando l’hate speech si intreccia con propaganda razzista, negazionismo e diffamazione aggravata da motivi discriminatori. La legge punisce non solo le espressioni di odio, ma anche la loro diffusione sistematica, come emerso nel cosiddetto “processo Stormfront”. In questo caso, la Corte di Cassazione ha confermato le condanne per istigazione all’odio razziale, ribadendo che la libertà di espressione non può giustificare propaganda razzista e discriminatoria.

Processo Stormfront e precedenti giudiziari

Stormfront era una piattaforma suprematista bianca che, tramite un sistema complesso di moderazione interna, veicolava messaggi d’odio contro ebrei, politici, intellettuali e cittadini. Le condanne dei suoi amministratori hanno segnato un precedente importante, dimostrando che l’organizzazione e la reiterazione di messaggi d’odio possono essere efficacemente perseguite penalmente.

Le sfide investigative: il caso Segre

Diverso è il quadro quando l’odio si manifesta su social di uso quotidiano come Facebook, X (ex Twitter), Instagram o Telegram. Il caso della senatrice a vita Liliana Segre, bersaglio di centinaia di messaggi antisemiti e diffamatori, mette in luce le difficoltà investigative. La mancata collaborazione dei grandi provider, tutelati da normative estere come il Primo Emendamento statunitense, impedisce spesso di identificare i responsabili, bloccando di fatto le azioni penali.

Normativa europea e responsabilità delle piattaforme

A livello europeo, strumenti come la direttiva sui servizi media audiovisivi e il Digital Services Act cercano di imporre obblighi di controllo e rimozione dei contenuti d’odio. Tuttavia, la loro efficacia è limitata dalla natura globale dei social e dalla resistenza dei colossi digitali a rispettare pienamente le normative nazionali.

Un problema politico e sociale, non solo giuridico

L’hate speech è soprattutto una sfida politica e culturale. Non si tratta semplicemente di censurare opinioni scomode, ma di difendere i diritti fondamentali alla dignità e alla sicurezza di tutti i cittadini. Per farlo serve una risposta coordinata, che unisca formazione, consapevolezza e responsabilità collettiva, oltre a leggi più efficaci e strumenti investigativi adeguati.


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Pronto soccorso, se l’attesa diventa danno: quando si ha diritto al risarcimento

Attese interminabili in pronto soccorso, anche in condizioni di emergenza, sono purtroppo una realtà diffusa in molte strutture italiane. Ma cosa accade se proprio quel ritardo contribuisce a peggiorare la salute di un paziente, causando complicanze, invalidità o addirittura il decesso? La legge prevede delle tutele precise per queste situazioni, ma è fondamentale conoscere i presupposti che permettono di ottenere un risarcimento.

Un diritto costituzionale e un obbligo di tempestività

La salute è un diritto fondamentale garantito dall’articolo 32 della Costituzione, che impone al Servizio Sanitario Nazionale di garantire prestazioni rapide ed efficaci in base alla gravità dei casi. Nei pronto soccorso, infatti, vige il sistema di triage, che assegna a ogni paziente un codice colore in base all’urgenza clinica, determinando i tempi di attesa massimi consentiti.

A definire gli standard minimi che ogni struttura deve rispettare è il Decreto Ministeriale n. 70 del 2 aprile 2015, che stabilisce regole su organizzazione, personale, tecnologie e tempi di intervento. Quando queste soglie vengono superate senza giustificato motivo e ne derivano danni alla salute, la struttura può essere chiamata a rispondere in sede civile.

Quando il ritardo diventa responsabilità sanitaria

Non ogni attesa configura automaticamente una violazione. Tuttavia, se il tempo di intervento eccede quello previsto per il codice triage assegnato e da ciò derivano conseguenze evitabili per il paziente, allora si configura una responsabilità della struttura sanitaria.

Affinché si possa ottenere un risarcimento, devono sussistere tre elementi:

  • un comportamento omissivo o ritardato da parte della struttura;
  • un danno concreto alla salute del paziente;
  • un nesso causale dimostrabile tra il ritardo e il danno subito.

Il sistema di triage diventa, quindi, il principale riferimento per stabilire se il comportamento della struttura sia stato inadeguato.

Chi può chiedere il risarcimento e a chi rivolgersi

A poter agire sono il paziente direttamente coinvolto oppure, in caso di decesso o danni molto gravi, i suoi familiari stretti. La responsabilità non ricade sul singolo medico, ma sull’intera organizzazione sanitaria, che deve garantire personale sufficiente, protocolli efficaci e strutture adeguate. Carenze organizzative e ritardi ingiustificati possono dunque costituire motivo di risarcimento, purché dimostrabili.

Quali prove servono e quali danni sono risarcibili

Per dimostrare il danno subito è fondamentale raccogliere documenti come il referto del pronto soccorso, il codice triage assegnato, i tempi di attesa e presa in carico, oltre alla cartella clinica e a eventuali perizie mediche. Spesso è necessario il supporto di un medico-legale per stabilire se il danno fosse evitabile.

Il risarcimento può riguardare:

  • danno biologico (peggioramento della salute);
  • danno morale (sofferenza psicologica);
  • danno patrimoniale (spese mediche e perdita di reddito);
  • danno esistenziale (riduzione della qualità della vita).

In caso di decesso, i familiari possono richiedere il risarcimento per la perdita del rapporto affettivo e per i danni economici e morali subiti.

I termini per agire

Il diritto al risarcimento non è eterno. La richiesta va presentata:

  • entro 10 anni se si procede per responsabilità contrattuale (in base al rapporto fiduciario che si instaura tra paziente e struttura sanitaria);
  • entro 5 anni se si agisce per responsabilità extracontrattuale (illecito civile).

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Il grande inganno digitale: così i colossi del web controllano le nostre idee

I dati sono il nuovo petrolio. Come il greggio nell’Ottocento, oggi le informazioni digitali sono la risorsa più contesa da aziende, governi e piattaforme. E il nostro contributo, spesso inconsapevole, è incessante: ogni giorno trascorriamo online sei ore, di cui due dedicate ai social. In un solo minuto della rete si contano milioni di messaggi, ricerche, video e post. Tutte tracce che alimentano l’immenso motore dei big data.

Il potenziale di questa mole di dati è smisurato. Chi la controlla guadagna un vantaggio decisivo: conosce gusti, abitudini, inclinazioni e può influenzare comportamenti. Se Amazon e Facebook profilano i consumatori per vendere meglio, il salto di qualità avviene quando il controllo dell’informazione passa dal mercato dei beni a quello delle idee. È lì che si decide il futuro delle democrazie.

La storia dell’opinione pubblica nasce con la stampa e le prime assemblee borghesi, quando cittadini informati e critici iniziano a discutere e a scegliere. Tre le condizioni necessarie: libertà civili, stampa pluralista, alfabetizzazione diffusa. Ma già nell’Ottocento, e poi con i sondaggi nel Novecento, si intuisce quanto sia fragile la capacità dei cittadini di formarsi opinioni autonome e consapevoli. E oggi, nell’epoca digitale, questa fragilità è diventata strutturale.

Sul web, la costruzione dell’opinione collettiva non è più affidata al confronto pubblico ma alla selezione algoritmica dei contenuti. Sono le piattaforme a decidere cosa vediamo e cosa no. L’agenda dell’informazione non nasce da un dibattito sociale ma da regole opache scritte nelle sedi della Silicon Valley. Un effetto perverso che isola ciascuno nel proprio mondo digitale, rafforza le convinzioni personali e riduce il confronto con chi la pensa diversamente. Il risultato è una società polarizzata, dove le echo chambers – camere dell’eco digitali – trasformano il dissenso in rumore di fondo.

E non basta. Il web ha anche smantellato la distinzione tra pubblico e privato, cardine della civiltà liberaldemocratica. Prima, era il cittadino a decidere quali aspetti della sua vita mostrare in pubblico. Oggi, si vive in pubblico scegliendo solo cosa tenere riservato. Social e piattaforme hanno reso di dominio pubblico emozioni, affetti, rancori, abitudini quotidiane. Una privatizzazione dell’opinione pubblica che piega il dibattito collettivo a logiche personali e commerciali.

Non era questo il sogno della rete. Nei primi anni Duemila sembrava che blog e community potessero rinvigorire l’agorà democratica. Ma il predominio dei social ha spazzato via quelle esperienze, trasformando il cittadino in utente e la piazza in mercato. È il paradosso dell’epoca digitale: più informati, meno liberi. Più connessi, meno consapevoli. Più partecipi, ma di un gioco le cui regole sono scritte altrove.


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Truffe bancarie, l’UE lascia scoperti i consumatori per 18 mesi

A partire da aprile 2024 è entrato in vigore il Regolamento UE 2024/886 sui bonifici istantanei, ma la vera tutela per i consumatori arriverà solo il 9 ottobre 2025. Fino a quella data, infatti, le banche e gli altri prestatori di servizi di pagamento (PSP) potranno continuare a eseguire bonifici istantanei e urgenti senza l’obbligo di effettuare una verifica preventiva dell’identità del beneficiario, lasciando così i consumatori esposti al rischio di frodi.

Una criticità tanto più evidente se si considera che le truffe bancarie via bonifico sono tra le frodi più diffuse e dannose per i risparmiatori europei. Il regolamento europeo introduce finalmente il servizio di verifica del beneficiario (VoP — Verification of Payee), una procedura che consente al pagatore di sapere in anticipo se il nome del destinatario corrisponde effettivamente all’IBAN indicato. Ma mentre il testo è già pienamente efficace, le banche avranno tempo oltre un anno e mezzo per adeguare i propri sistemi, creando un vero e proprio “vuoto di tutela” a discapito dei clienti.

Il paradosso normativo e il rischio di un approccio dilatorio

Il punto critico è proprio il periodo transitorio: mentre le banche continuano a offrire bonifici istantanei — operazioni non revocabili e con tempi di esecuzione rapidissimi — il sistema di verifica obbligatorio scatterà solo a partire dal prossimo ottobre 2025. È facile intuire come in questo lasso di tempo i consumatori rischino di essere vittime di truffe che il nuovo strumento VoP avrebbe potuto impedire.

Il regolamento, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 19 marzo scorso ed efficace dall’8 aprile, prevede sì una scadenza ultima per l’introduzione della verifica, ma non vieta di anticiparla. Anzi, i considerando del testo europeo indicano chiaramente che la misura è necessaria per rafforzare la sicurezza e la fiducia nei pagamenti digitali. Nonostante ciò, molti istituti bancari sembrano orientati ad attendere l’ultimo giorno utile.

Responsabilità bancaria e dovere di diligenza: cosa potrebbe decidere la giurisprudenza

Il quadro giuridico è complesso. Secondo consolidata giurisprudenza, la responsabilità delle banche deve essere valutata in base agli standard di diligenza professionale richiesti al momento del fatto dannoso. Dal momento in cui una nuova misura di sicurezza è tecnicamente nota e concretamente applicabile, gli istituti di credito non possono più ignorarla, anche se la normativa concede tempo per adeguarsi.

Le possibili interpretazioni giurisprudenziali che potrebbero emergere sono tre:

  1. Responsabilità piena immediata: le banche sarebbero già oggi obbligate ad adottare soluzioni equivalenti alla VoP, essendo noto il contenuto del regolamento e le linee guida tecniche già pubblicate dal European Payment Council.
  2. Responsabilità progressiva: la responsabilità aumenterebbe man mano che ci si avvicina alla scadenza del 9 ottobre 2025, tenendo conto dei tempi di conoscenza, della disponibilità tecnica e delle best practices del mercato.
  3. Doppio binario di responsabilità: gli istituti che anticipano l’adeguamento beneficerebbero di una presunzione di diligenza, mentre quelli che attendono dovrebbero dimostrare di aver comunque adottato misure alternative idonee a ridurre i rischi o limitare i servizi più pericolosi.

Il nodo della diligenza professionale e il diritto dei consumatori

Alla luce di queste considerazioni, è evidente come il vero problema non sia solo normativo, ma soprattutto di etica professionale e responsabilità tecnica. La Cassazione ha chiarito che la diligenza bancaria deve essere parametrata ai rischi tipici del settore e che, in caso di bonifico erroneo o fraudolento, spetta alla banca dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per prevenire il danno.

Nel contesto attuale, questo significa che le banche, pur non obbligate formalmente al VoP fino a ottobre 2025, potrebbero essere chiamate a rispondere per non averlo comunque implementato, laddove tecnicamente possibile, o per aver offerto bonifici istantanei senza adeguate misure di sicurezza


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Danno biologico in incidente stradale: la Cassazione unifica i criteri di risarcimento

Una nuova ordinanza della Corte di Cassazione mette ordine in materia di risarcimento dei danni da incidenti stradali, chiarendo un punto rimasto a lungo oggetto di incertezze interpretative. Con la decisione n. 13885 depositata il 9 aprile 2025, la Terza sezione civile ha stabilito che, ai fini della liquidazione del danno biologico per lesioni di lieve entità, devono applicarsi i criteri previsti dall’articolo 139 del Codice delle assicurazioni private (CAP) anche quando il sinistro si verifica nell’ambito di un contratto di trasporto pubblico di linea.

La questione su cui i giudici di legittimità sono intervenuti riguarda la rilevanza o meno del titolo della responsabilità — contrattuale o extracontrattuale — nella determinazione del risarcimento per le cosiddette micropermanenti. In particolare, se il danneggiato viaggiava su un mezzo pubblico al momento del sinistro, la liquidazione del danno deve comunque avvenire secondo le tabelle fissate dal CAP, esattamente come se si trattasse di un ordinario incidente stradale tra privati.

La Corte ha chiarito che il criterio determinante è il collegamento tra il danno e la circolazione di un veicolo a motore, indipendentemente dal fatto che il rapporto tra le parti sia regolato da un contratto di trasporto. Come ricordato dai giudici, la legge considera “circolazione” qualunque movimento o sosta di un veicolo su area pubblica o privata, e il risarcimento deve seguire regole uniformi in base alla natura dell’evento lesivo, non al tipo di responsabilità invocata.

Il principio affermato è semplice quanto incisivo: non avrebbe senso adottare criteri diversi per il risarcimento di un danno alla salute solo perché il danneggiato è anche contraente di un contratto di trasporto. In questo modo si evitano discrepanze che potrebbero dipendere dalla scelta soggettiva del danneggiato se agire in base alla responsabilità contrattuale o extracontrattuale.

Una posizione, quella della Cassazione, che richiama anche precedenti significativi, come la sentenza n. 26792 del 2008 delle Sezioni Unite, dove si ribadiva la centralità del diritto alla salute come interesse primario da tutelare, a prescindere dal tipo di rapporto giuridico tra le parti.


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